Il mese scorso, ho avuto la grazia di tradurre ad un ritiro per sacerdoti tenuto da José (Pepe) Prado Flores, il fondatore delle Scuole di Evangelizzazione di Sant’Andrea, nella parrocchia di S. Eustorgio a Milano. Tra gli spunti di riflessione che ha dato, mi ha colpito in modo particolare la frase: “E’ più facile che si converta un peccatore che un fariseo”. In effetti, lui spiegava che uno dei rischi che si corrono nella vita da consacrato sia proprio quello di abituarsi al sacro e di finire col guardare solo la legge, le regole, la forma; ci si concentra più sulle cose che si devono fare, dimenticando però per “Chi” si fanno. Ci vuole pertanto un’espierienza forte, una Damasco, un incontro personale con il Signore per scuoterci dal nostro torpore. A questo proposito vorrei riportare un episodio che ho letto in un bellissimo libro di Renzo Zocca, “Ti amo perché di sì a 360 gradi”:
Lo scorso anno, con degli amici, ero andato a visitare un santuario mariano. Era la promessa che avevamo fatto in seguito a una grazia ricevuta. In quella meravigliosa chiesetta avevamo celebrato l’Eucaristia durante la quale ci eravamo soffermati sulla bella parabola del figliol prodigo, cercando di raffrontare la nostra vita con quella dei due figli, in particolare del maggiore. Tutti ci eravamo resi conto che, anche se con difficoltà lo volevamo ammettere, avevamo dentro di noi profonde tracce di lui. Mentre celebravamo l’Eucaristia, avevo notato in fondo alla chiesa un signore distinto che seguiva il nostro rito. Al termine, mentre stavamo per recarci al vicino bar per fare la colazione, fui avvicinato da quel signore che chiese di poter parlare con me. Ci appartammo e lui immediatamente, come un torrente in piena, cominciò a parlare. Si presentò. Era il superiore di una comunità religiosa da ben quindici anni e si era preso un mese di vacanza in quel luogo appartato, per fare una verifica della nostra vita.
Affermava, profondamente scosso, che mai come in quella circostanza aveva vissuto in prima persona quella parabola, ma soprattutto mai prima di allora si era sentito rappresentato dal figlio maggiore. Mi raccontò tutta la sua vita. Era entrato in seminario da bambino percorrendo, in convento, tutte le varie tappe che lo avevano avvicinato al sacerdozio. “Trovandomi dotato di una buona intelligenza”, disse, “appena ordinato, fui inviato a Roma per specializzarmi in Sacra Scrittura, dopo di che ritornai per insegnare. Nel giro di alcuni anni, feci parte dei consiglieri e successivamente fui scelto come superiore generale. Era un periodo, quello, in cui il mio predecessore, ormai anziano, aveva lasciato andare le cose. Io, appena eletto, decisi di prendere in mano il timone e di imporre una certa severità che, purtroppo, continuai anche nel proseguo del mio mandato.
Tante volte, anziché mettermi nei panni dei miei confratelli, li stigmatizzavo e a volte anche li umiliavo favorendo così più che il clima di accoglienza, quello della paura e del sospetto. Mi accorgevo che i rapporti con loro erano freddi e formali. Mi rendevo sempre più conto che tra me e alcuni di loro era stato innalzato un muro e quando qualche circostanza poteva favorire il disgelo, mi sentivo come intrappolato e schiavo del mio carattere intransigente e della mia cultura acquisita durante gli studi a Roma. Forse se avessi vissuto la mia vita sacerdotale in parrocchia a contatto dei problemi di tutti i giorni, le cose sarebbero andate diversamente, ma tant’è … Ciò che però mi dispiace di più e che alcuni avevano lasciato l’istituto sbattendo la porta. La loro situazione trascinata per diverso tempo mi poneva in crisi. Più volte ero tentato di mettermi nei loro panni, di giustificare o per lo meno capire le loro debolezze, ma alla fine ritornava prepotente e intollerante il rispetto dei principi e della legge. Da qui, il distacco, l’allontanamento, la crisi di vita più profonda, la disperazione. E io, sempre ligio al dovere, ero orgoglioso di essere stato fedele ai principi, ma pure, nello stesso tempo, disperato.
A complicare le cose, alcuni problemi fisici che mi preoccupavano sempre di più. Sono dovuto ricorrere alle cure dei medici e sono stato costretto a sottopormi a degli esami supplementari che dovrò ripetere il mese prossimo. Ma non sto per nulla bene e ho paura, una tremenda paura …”
Passarono alcuni minuti di silenzio. Poi, lo esortai a ringraziare lo Spirito Santo che lo aveva accompagnato a partecipare a quella Eucaristia – niente capita per caso – e l’aveva condotto per mano a vedere la sua realtà così com’era. Gli parlai naturalmente del “mio” dipinto di Rembrandt; anzi gli feci vedere una riproduzione traendola dal libro di preghiera che tenevo con me e lo esortai a “sciogliersi”, a credere fermamente che il Padre stava diventando una cosa sola con il figlio minore, ma che il suo desiderio più grande era che anche il più grande si lasciasse amare. Ancora un lunghissimo attimo di silenzio. Poi … la sua richiesta del perdono da parte del Padre misericordioso attraverso il sacramento della penitenza.
Posi sul suo capo la mano sinistra e con la destra tracciai il segno della croce, segno del perdono divino, recitando la formula: “Dio, padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda mediante il ministero della Chiesa il perdono e la pace. E io ti assolvo da tutti i tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Lui rispose: “Amen”. Ripresi: “Il Signore ha perdonato i tuoi peccati. Va’ in pace!” “Rendiamo grazie a Dio” rispose. Era letteralmente commosso, come lo ero io. Ci abbracciammo, poiché ambedue avevamo sperimentato la misericordia di Dio. Misericordia che nella lingua aramaica, adoperata da Gesù di Nazaret, significa “togliere la macchia e anche l’alone di essa”, far diventare cioè creatura nuova.
Non ho più saputo nulla di lui, anche perché non ho voluto sapere quale era il suo istituto, né il suo nome, né la città dove abitava. Ma sono certo che lui, come pure anch’io, ci siamo sentiti rappresentati dal Padre: sempre più ci rifugeremo tra le sue braccia fino ad acquisire le sue caratteristiche.”
(Renzo Zocca, “Ti amo perché di sì 360 gradi!!!”, Edizioni Messaggero Padova, pp. 47-50)